impresa sociale

Scoinvolti nell’Impresa Sociale

Abbiamo mandato 3 ragazzi italiani al training course “Involvement to Social Entrepreneurship” a Londra dal 7 al 15 novembre, e loro in cambio hanno deciso di condividere con noi questa divertente intervista, e anche qualche contenuto extra.

Quali erano le tue aspettative su questo training? Sono state soddisfatte?

Giacinto: Le mie aspettative erano di diversa natura. Intanto acquisire gli strumenti per poter tentare lo sviluppo di un’idea imprenditoriale nel sociale, o comunque supportare qualcuno con qualche idea. E ad esempio, capire quale fosse l’idea di impresa sociale nelle nazioni degli altri partecipanti, cos’è sociale anche altrove e a che livello. L’intersezione tra formazione, presentazione dello stato dell’arte delle imprese sociali e alcuni esercizi/giochi come la simulazione di una raccolta fondi con soggetti differenti e il funzionamento di imprese, banche, stato mi hanno soddisfatto parecchio. Tuttavia credo che sia necessario uno studio individuale/collettivo successivo, almeno per quanto mi riguarda, in modo da poter riesercitarsi e acquisire maggiore sicurezza prima di poter partire concretamente con un’idea.

L’aspettativa, invece, di stringere relazioni a livello europeo e conoscere gli altri partecipanti è stata soddisfatta appieno. È andata meglio di come mi aspettavo, specie perché ho riscontrato che con alcuni partecipanti ci sono orizzonti comuni, al di là dell’impresa sociale, cioè proprio nella visione del mondo e delle cose.

Noemi: Ho lasciato l’Italia con una sola consapevolezza, riassumibile in una famosissima cit., ovvero ‘you know nothing, Jon Snow’. Ero quindi pronta ad assorbire più informazioni possibili e devo dire che l’effetto spugna ha dato i suoi risultati! Sono tornata a casa arricchita di conoscenze tecniche sull’imprenditoria, ma anche di maggiori competenze, non solo settoriali ma anche trasversali e interpersonali. E benché io sia estremamente soddisfatta del Training Course, ogni corso di formazione ben fatto ti lascia sempre con molte questioni aperte, da indagare e approfondire.

Tommaso: Da questo corso volevo apprendere quali sono le possibilità per finanziare un’impresa sociale e devo dire che sono molto soddisfatto visto che durante il corso si sono svolte varie attività a riguardo: tra una simulazione di un evento di raccolta fondi con angel investor, politici e altre figure influenti del mercato, una messa in scena di varie imprese sociali collegate tra loro, con lo Stato e con altre imprese sociali, e un World Cafè* sulla raccolta fondi devo ammettere che le mie aspettative sono state più che soddisfatte.

*World Cafè è un metodo non formale che propone vari tavoli con altrettanti argomenti che vedono ruotare gruppi di partecipanti al fine di comprendere e contribuire ognuno apportando qualcosa di personale

Quale attività ti è piaciuta di più?

Giacinto: L’attività più significativa è stata lo sviluppare un’idea di impresa sociale in un working group formatosi dopo un brainstorming. Individuare ognuno un problema e convergere verso una possibile messa in pratica. Da lì un percorso tutto in salita, con difficoltà, improvvisi bagliori e nuovi spunti, discussioni. Fino alla presentazione del progetto finale agli altri gruppi e la restituzione di vari feedback e commenti. Quel lavoro di gruppo è stato per me un’attività preziosa, qualcosa che in breve tempo fa capire molto su come individuo e gruppo possano coesistere ed è qualcosa che ricapiterà di fare con maggiore consapevolezza.

Noemi: Indubbiamente l’attività più impegnativa e faticosa, che ci ha coinvolto per diversi giorni. Obiettivo finale: la progettazione della nostra impresa sociale. A partire dall’analisi dei problemi e del contesto sociale, passando all’utilizzo di modelli specifici per la ricerca della soluzione, abbiamo giocato ai piccoli imprenditori. E’ stato interessante!

Tommaso: La mia attività preferita è stata la simulazione del funzionamento di diverse imprese sociali connesse tra di loro con lo stato e con imprese esterne, un’attività intensa che però mi ha fatto riflettere di quanto conti l’organizzazione e la gestione economica per il buon funzionamento di un’impresa sociale. Questa attività mi ha portato a capire che anche se l’impatto sociale è indubbiamente una componente chiave dell’impresa sociale l’amministrazione dell’aspetto economico dell’impresa sociale è fondamentale al fine di mantenere un’attività economicamente autosufficiente. La dinamica non formale usata mi è piaciuta particolarmente per il suo forte impatto pratico, di sicuro la riproporrò in altri gruppi di lavoro con i giovani che vogliono avvicinarsi al mondo dell’impresa sociale.

Quali sono le tue impressioni finali?

Giacinto: Il training è stato molto interessante, e il bilanciamento che si è avuto tra attori (noi), formatori e contenuti non era scontato. Il mix tra educazione formale e non formale ha reso tutto molto più scorrevole. La sensazione più importante è stata che tutti avevano voglia di coinvolgere ed essere coinvolti. Una full immersion speciale, in cui l’impegno è stato elevato, ma ci si sentiva cullati anche dall’esperienza del gruppo, visto che siamo stati assieme quasi ininterrottamente per 8 giorni.

Noemi: in merito a questo progetto, sono tante le considerazioni che potrei fare. Ne lascio una, la più importante: solo con l’esperienza concreta e vissuta, con il dialogo e con lo scontro con l’altro, che è anche ‘il diverso’, possiamo davvero ampliare i nostri orizzonti. Fare nostre le idee di qualcun altro, calzarne le scarpe e creare dei compromessi per una buona con-vivenza.

Tommaso: Estremamente soddisfatto del training course, la professionalità dei trainers e la vastità degli argomenti trattati mi ha colpito, così come poter capire meglio le dinamiche dei finanziamenti possibili per le imprese sociali. Poi mi sono trovato benissimo con gli altri partecipanti, si è creato un feeling speciale sin dall’inizio, spinto dalla forte motivazione dei partecipanti. Con il team italiano abbiamo fatto faville, considerando che siamo del nord, del centro e del sud, per una settimana siamo riusciti a distruggere il concetto di razzismo territoriale che tanto spaventa l’Italia. Un consiglio agli altri italiani che leggono: viaggia di più e sicuramente i tuoi confini si estenderanno, non solo quelli geografici, ma anche quelli mentali.

Pensi che questo progetto possa contribuire ad incrementare la consapevolezza di europeismo?

Giacinto: Di fatto il contesto del training group è stato un piccolo esperimento di convivenza democratica di tipo europeo. Darsi le regole iniziali, proseguire, lavorare, ascoltare. Un’esperienza autonoma di europeismo in cui la consapevolezza può solo aumentare: anche dall’immaginare imprese sociali che funzionino dalla Lituania alla Turchia o all’Italia. Ricordo alcuni dialoghi con altri partecipanti che mi hanno fatto pensare “solo” in ottica europea a partire dalla condivisione dei nostri bisogni, problemi, aspirazioni e possibili soluzioni.

Noemi: Ciò che è certo è che, più ho l’opportunità di viaggiare, più mi rendo conto che il confine degli stati non è che un qualcosa di labile e sfuggevole. Certo, le differenze culturali ci sono, e sarebbe un peccato rinnegarle, ma sono convinta che sia di numero nettamente maggiore gli elementi di comunanza, elementi di contatto e condivisione, che ci fanno sentire parte di una famiglia più grande rispetto a quella delimitata dai confini nazionali.

Tommaso: Di sicuro trovarsi una settimana a contatto con persone di 7 paesi diversi (Italia, Spagna, Grecia, Turchia, Regno Unito, Lituania e Norvegia) arricchisce molto il bagaglio culturale. Condividere attività, spazi, opinioni e tempo libero è stato il miglior modo per sentirsi tutti parte di un continente che si rende disponibile ad aprire i propri confini ai Paesi limitrofi. In sostanza è stato molto bello trovarsi a contatto con tante culture diverse e così tante persone che condividono la stessa voglia di lavorare sodo in un unico gruppo che esprime il cuore dell’europeismo.

­­­­­Contenuti extra: qualche foto e i suoi commenti

Ecco qui un esempio di tre italiani all’estero, possiamo confrontare la postura di Noemi alla nostra sinistra con quella di altri due individui, Tommaso e Giacinto sulla destra, anche qui l’Italia femminile vince come nel calcio...scherzi a parte questo è il Team Italiano che presenta un esempio di impresa sociale di successo Addiopizzo travel: attività siciliana che promuove un turismo sostenibile che lavoro solo con persone che hanno deciso di dire no al pizzo.
Presentazione di un’impresa sociale di successo

Ecco qui un esempio di tre italiani all’estero, possiamo confrontare la postura di Noemi alla nostra sinistra con quella di altri due individui, Tommaso e Giacinto sulla destra, anche qui l’Italia femminile vince come nel calcio…scherzi a parte questo è il Team Italiano che presenta un esempio di impresa sociale di successo Addiopizzo travel: attività siciliana che promuove un turismo sostenibile che lavoro solo con persone che hanno deciso di dire no al pizzo.

 

 

 

 

In questa foto invece vi proponiamo 3 esemplari di italiani all’estero in escursione notturna. Nonostante arrivassimo a fine giornata stanchi, con la testa colma di concetti e idee, la voglia di visitare Londra prevaleva ogni sera! E così, una passeggiata in Oxford Street, un concerto blues, una visita alla mostra World Press Photo 2017, ogni volta qualcosa di diverso e stimolante, con l’occasione di approfondire le conoscenze reciproche!
Una serata al pub

In questa foto invece vi proponiamo 3 esemplari di italiani all’estero in escursione notturna. Nonostante arrivassimo a fine giornata stanchi, con la testa colma di concetti e idee, la voglia di visitare Londra prevaleva ogni sera! E così, una passeggiata in Oxford Street, un concerto blues, una visita alla mostra World Press Photo 2017, ogni volta qualcosa di diverso e stimolante, con l’occasione di approfondire le conoscenze reciproche!

 

 

 

 

 

 

Proprio perché il training è un viaggio, ecco la versione “in viaggio": ci ritrovammo 3 italiani, in una Londra oscura, tra anatolici, scandinavi e boemi, a smarrire la diritta via, contaminarci e prepararci alle attività del giorno seguente. Anche i dialoghi serali sono serviti a lavorare meglio durante il corso, capire meglio con chi eravamo a contatto per svariate ore di quelle giornate!
In viaggio nel Double Decker Bus

Proprio perché il training è un viaggio, ecco la versione “in viaggio”: ci ritrovammo 3 italiani, in una Londra oscura, tra anatolici, scandinavi e boemi, a smarrire la diritta via, contaminarci e prepararci alle attività del giorno seguente. Anche i dialoghi serali sono serviti a lavorare meglio durante il corso, capire meglio con chi eravamo a contatto per svariate ore di quelle giornate!

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Al di là della Manica e quel che Eutopia vi trovò

Eutopia a Bristol: dieci business case di Impresa Sociale

Dal 26 al 30 giugno, siamo stati a Bristol per una visita studio, organizzata da Erasmus+ UK, e co-finanziata da Salto-Youth, dalla nostra Agenzia Nazionale Giovani e dall’Agenzia Erasmus+ di Malta.

La visita rientrava in progetto di più ampio respiro, “Towards collaborative practice”, ed essere stati selezionati per rappresentare l’Italia a Bristol per noi è stato un onore, oltre che un vero piacere. Lo scopo della visita (per quanto ci riguarda, abbondantemente raggiunto) era far conoscere nel dettaglio ai partecipanti diverse realtà dell’Impresa Sociale inglese, con una serie di incontri con realtà locali mirati ad approfondire diversi aspetti legati alla sostenibilità, all’impatto, all’organizzazione aziendale.

Un’esperienza che ci ha fatto molto bene… e che, pensiamo, avrebbe fatto un mondo di bene anche ad altri nostri connazionali. Purtroppo, stavolta siamo stati gli unici Italiani a prendere l’aereo per l’Inghilterra, e questo ci spiace. In una galassia no-profit ancora per buona parte attaccata alle sottane di Comuni, Regioni e Fondazioni, sicuramente qualcuno avrebbe potuto toccare con mano come, all’estero, le NGO e le Imprese Sociali riescano spesso a raggiungere grandissimi impatti sulle categorie più deboli e ottimi livelli d’innovazione, senza dipendere dalle elemosina pubbliche.

Alcune di queste “Buone pratiche” ce le porteremo nel cuore. Ve le raccontiamo qui sotto.


1. Ricostruire vite

La nostra prima visita, direttamente nella Sala Conferenze dell’Hotel, ce la fa il Direttore Esecutivo di Bristol Together, una Impresa Sociale che crea lavoro per ex detenuti. Il loro motto dice già tutto: costruiscono case, ricostruiscono vite.

La loro attività principale consiste nel ristrutturare case e palazzi, impiegando come manodopera ex detenuti, a cui offrono, oltre ad uno stipendio mensile che nessun altro gli darebbe, una mentorship continua ed una formazione professionale nel campo dell’edilizia altamente spendibile nel mondo del lavoro.

Il risultato? I loro “uomini migliori” se ne vanno… per lavorare al doppio dello stipendio presso Imprese Edili di tutto rispetto. Una volta responsabilizzati e indirizzati verso una professione e un nuovo stile di vita, il tasso di recidività degli ex detenuti impiegati da Bristol Together è davvero molto basso.

Non è un percorso veloce (in media, ci vogliono 4 anni per un ex detenuto per “abituarsi” al nuovo stile di vita), né facile: però funziona.

Considerando il costo che ha per lo Stato un solo detenuto non recuperato alla società civile, e dunque serialmente recidivo (parliamo di qualcosa come 70.000£ all’anno), l’Impatto Sociale di Bristol Together risulta talmente… devastante, che molti privati hanno deciso di investirci, in cambio di un ROI decisamente più basso del solito (3-4%) ma dal valore sociale inestimabile.

http://www.bristoltogether.co.uk/


2. Una Banca è una Banca

La seconda visita la facciamo noi… a Triodos Bank UK.

Triodos si definisce una “banca sostenibile”. La loro missione è fornire ai propri clienti gli strumenti finanziari per creare una migliore sostenibilità ambientale e sociale.

L’ambiente, in effetti, è piuttosto differente dalle Banche cui siamo abituati: tutto, dagli arredi ai controsoffitti, è realizzato con materiali eco-sostenibili, e nell’ingresso fanno bella mostra di sè i prodotti realizzati dai Clienti con il supporto finanziario di Triodos: guide sul Turismo responsabile, alimenti biologici, articoli di artigianato.

La banca, fondata in Olanda e che conta ormai moltissime filiali in Europa, basa il suo lavoro quotidiano su un rapporto molto stretto con il Cliente, finanziando e monitorando con attenzione progetti orientati all’innovazione sociale e all’ecosostenibilità.

Una discreta pecca che ci duole riportare: Triodos è, come tutte le altre banche, protesa verso Imprenditori e Aziende già avviati e dunque solvibili. Non supportano, quantomeno al momento, nuovi progetti d’impresa… e questo ci piace poco.

https://www.triodos.co.uk


3. Coltivare in Città

The Severn Project è un’Impresa Sociale, basata sulla passione del suo fondatore e attuale Direttore: ci racconta, non senza comprensibile orgoglio, di aver iniziato nel 2010 con 2500£, e che ora l’Impresa è arrivata a fatturare quella stessa cifra ogni settimana.

Come si deduce dal loro motto, fanno molto più che coltivare la terra: offrono opportunità di lavoro ad ex tossicodipendenti e a persone affette da disabilità cognitive o psichiatriche.

Severn Project produce alimenti biologici (principalmente verdura ed erbe aromatiche) di buona qualità, e i suoi principali clienti sono i Ristoranti dell’area di Bristol. Non ricevono sussidi pubblici né grant: eppure, anche loro assumono solo un tipo “particolare” di lavoratori.

In un Regno Unito in cui, si stima, il 70% del cibo consumato è importato dall’Estero, Severn Project cerca di tornare a una tradizione, ormai quasi dimenticata, di produzione sostenibile e di un rapporto con la terra più diretto.

Il tutto non lontano dal Centro di Bristol: vedere per credere.

http://www.thesevernproject.org


4. La Comunità al Centro

Arriviamo a The Park Centre: una grande struttura a Knowle, Bristol, estesa 15 acri (circa 60 Km2), gestita da un’Impresa Sociale.

Il quartiere, ci racconta la Direttrice, è di quelli difficili: devastato come tanti da una Corporation che, dopo aver occupato per molti anni il suolo e la Comunità con le sue operazioni, ha improvvisamente levato le tende lasciandosi dietro disoccupazione e disagio sociale.

The Park, scopriamo, nacque nel 2000 come hub di servizi per la Comunità di Knowle dopo la chiusura della Scuola Pubblica. Il Consiglio Comunale non sapeva davvero più che pesci pigliare: un drappello di “pazzi” decise di chiedere la gestione della struttura e, in pochissimo tempo, riuscì a renderla al contempo sostenibile e utile alla Comunità.

Con un spazio così grande a disposizione, la maggior parte delle risorse del Centro viene da affitti di privati: all’interno della struttura trovano spazio altre Imprese Sociali (spoiler: una andremo a visitarla tra poco), Charity, Professionisti, Negozi, Uffici.

Tutto questo serve a sostenere le risorse di utilità comune, come la caffetteria, il Training Center, la Palestra… e tanto altro ancora.

Uno degli incisi della Direttrice ci rimane piuttosto impresso: “ci siamo accorti che la gente, qui, prova grande vergogna della sua povertà. Si vergognano di farsi vedere in giro. Parte integrante del nostro lavoro è fare in modo che entrino qui nel Centro, che lo usino“. Per questo, ora che The Park può contare su 29 risorse, di cui 10 assunte a tempo pieno, esse sono per la stragrande maggioranza figli e figlie della devastazione di Knowle, membri della Comunità.

Vedere facce conosciute lavorare nel Centro, spinge le altre persone ad entrare, a salutare, a fare un giro, a vedere che succede.

Magari a fare un corso di cucina e trovare lavoro come Cuoca.

Magari a iniziare a dare pugni al sacco presso la Scuola di Boxe.

https://www.theparkknowle.org.uk/


5. Una piscina abbandonata

Arriviamo a Campus Skateparks… e qui l’atmosfera è decisamente particolare.

All’ingresso, sembra un negozio di abbigliamento e articoli per skater.

Ci addentriamo, e sembra una Cafeteria di quelle un po’ hipster.

Sullo sfondo, si intravede una piscina senz’acqua.

In realtà, come ci spiegano i due soci, Campus Skateparks è un mix di tutto: un’impresa sociale, fondata nel 2011, che ha come obiettivo sfruttare l’energia positiva e l’influenza dello skateboard per aiutare bambini e ragazzi svantaggiati, o a rischio di esclusione sociale, a sentirsi parte di una comunità, ad accettare la mentoriship di un adulto (tanto più perché è un ex skateboarder!).

La parte veramente impressionante è proprio la piscina:

Anch’essa abbandonata dal Consiglio Comunale, perché scarsamente usata dalla comunità e difficile da riconvertire ad altro uso.

Due pazzoidi ci vedono una pista da skateboard… e all’improvviso diventa un centro di aggregazione giovanile!

I prezzi sono decisamente affordable per i ragazzi della comunità: una membership di 5£ e un contributo di 2,5£ ogni volta che usano la piscina per le loro evoluzioni.

Morale della favola: tra le membership, gli incassi della Cafeteria e gli eventi per skateboarders, la struttura si sostiene in maniera autonoma, senza contributi pubblici, né grant.

https://www.campusskateparks.co.uk


6. La proprietà è un furto?

Cammina cammina, arriviamo nel quartiere di Stokes Croft. Ce ne accorgiamo per la quantità (e qualità) di street art che inizia a incomberci addosso. C’è un palazzone rosso, ricco di murales su ambo i lati. Campeggia anche, a mo’ di cartellone pubblicitario, una scritta piuttosto interessante: “PROPERTY IS THEFT. NOBODY OWNS ANYTHING. WHEN YOU DIE, ALL STAYS HERE.” (George Carlin)

Siamo arrivati a People’s Republic of Stokes Croft.

 

L’atmosfera è di quelle vagamente fricchettone… e così anche l’imprenditore sociale che ci accoglie, e ci guida attraverso un’altra storia di Comunità devastate, e faticosamente ricostruite. Ad esempio, ci spiega, il palazzo davanti cui ci accoglie era una fabbrica di ceramica. In seguito alla globalizzazione, con l’entrata in scena di competitor asiatici dai prezzi di produzione sensibilmente più bassi, la fabbrica fallì e tutti gli operai furono mandati a casa.

Una storia comune all’intero quartiere, abbandonato a sè stesso dalle Corporation quanto dalle Amministrazioni Comunali, e che gradualmente, compattandosi intorno ai propri palazzoni abbandonati, ha deciso di ricostruirsi un futuro a proprio modo, rifiutando ogni intervento esterno. Il loro slogan: WE MAKE OUR OWN FUTURE.

L’uomo, insieme alla sua famiglia e ad altri membri della Comunità, decise allora di comprarlo, quello stabile, piuttosto di vederlo cadere in altre mani: oggi è sede di un’Impresa Sociale che ospita molti artigiani del legno e della ceramica, riutilizzando spesso anche materiali di scarto per creare prodotti unici, locali. Il Gift shop è la naturale valvola di sfogo di questa creatività… eppure, nonostante la lavorazione artigianale, ci sorprende un po’ la standardizzazione: le loro tazze da caffè “PRSC” somigliano pericolosamente ad articoli usciti da una qualunque fabbrica cinese. E forse non è un caso.

Una persona, fino all’età di 18 anni, in media vede 1 milione di pubblicità” ci dice, “noi abbiamo deciso di combattere questo abuso con le stesse armi“. Da qui i tanti murales, che scimmiottano cartelloni di tipo pubblicitario per veicolare messaggi politici, e non commerciali.

 La lotta politica è parte integrante di questa Comunità. Dal “Think local“, slogan utilizzato per tentare di scacciare TESCO dal quartiere, all’aperto sostegno a Corbyn durante le ultime elezioni, la Repubblica Popolare di Stokes Croft si schiera apertamente verso l’autogoverno e l’economia sociale.
Noi di certo non ci sentiamo di addossare, come spesso accade da queste parti, tutte le colpe al mercato Globale o all’Europa… ci pare piuttosto che il sistema britannico, così endemicamente, profondamente, spietatamente capitalista, abbia giocato una parte più che rilevante.
Tuttavia, toccando con mano la devastazione, l’abbandono e la disperazione di intere Comunità, e con quanta fatica si stiano ricostruendo… cominciamo a capire un po’ meglio la Brexit, e come sia potuta accadere.

7. L’importanza di coesistere

Rimaniamo a Stokes Croft, qualche metro più in là. La Hamilton House è un grande complesso, composto da una grande facciata e due altri omologhi edifici squadrati disposti perpendicolarmente ai suoi lati, che porta evidenti i segni architettonici dell’aver ospitato noiosissimi uffici di noiosissimi impiegati. Lo animano oggi decorazioni d’ogni tipo, e una comunità vibrante di artisti e creativi che al suo interno lavorano, s’incontrano, vivono.

La sua storia è, ancora una volta… molto britannica. Dopo essere stato abbandonato da Lloyds in seguito alla depressione economica del quartiere, il complesso di Hamilton House si ritrovò in stato di completa rovina, perdendo fortemente di valore. Tanto che, nel 2008, i proprietari Connolly and Callaghan invitarono un gruppo di amici a presentare un progetto per trasformare il complesso in un Centro per la Comunità. Nacque Coexist:

Coexist, dopo anni di duro lavoro, ospita oggi moltissime organizzazioni ed individui. Sfruttando al massimo il grande spazio a disposizione, si è reso accessibile a tutti i creativi uno spazio su misura dove crescere, confrontarsi, mescolarsi, contaminarsi. E quando parliamo di accessibilità, intendiamo quella economica: nel Coworking, una postazione costa 10£ al giorno o 150£ al mese… davvero poco, se consideriamo la miriade di progetti con cui è possibile venire in contatto, e soprattutto che siamo in Inghilterra.

Quando il business inizia a crescere, e con esso il bisogno di spazio, Coexist continua ad accompagnare i membri della sua Comunità, offrendo uffici e laboratori a prezzi veramente interessanti: 11£ per squarefoot, compresi i servizi.

La struttura stessa di Coexist, non solo il suo modello di business, è fluida, flessibile, e altamente partecipativa.

Tra i Progetti più interessanti ospitati dalla Hamilton House, vi segnaliamo The Bristol Bike Project e Coexist Community Kitchen. Ma sono talmente tanti che non avremmo spazio neanche per elencarveli tutti… in ogni modo, se passate da queste parti un giretto nel Gallery Space vi consigliamo di farlo. Chi espone qui, solitamente, cose da dire ne ha.

Non possiamo esimerci dal chiudere, come i ragazzi che ci hanno accompagnato nel nostro Tour della Hamilton House, su una nota piuttosto triste: a meno che non accada un miracolo, Coexist e i suoi coworker verranno molto presto sloggiati dal complesso.

Ricordate i proprietari dell’edificio, di cui parlavamo sopra? Quelli che così coscenziosamente avevano deciso di destinare la loro proprietà ad iniziative sociali per la comunità? Ebbene, dopo qualche anno si sono accorti che il Quartiere non è più degradato, che il mercato immobiliare qui è in impennata… e hanno deciso di vendere. Hamilton House vale attualmente sugli 8 milioni di sterline.

Coexist ha presentato due offerte per acquistare la struttura, ma a quella cifra (comprensibilmente) non riesce ad arrivare. L’ultima offerta, più che un freddo business plan, è un piccolo capolavoro: la trovate qui.

Ebbene, entrambe sono state rifiutate, e il periodo di prelazione è finito: presto le offerte da altri privati interessati fioccheranno… e Coexist dovrà nuovamente cambiare pelle, o sparire.

Così, nonostante tutto ciò che di bello abbiamo visto e ascoltato, in fin dei conti ce ne andiamo da Hamilton House mogi e disillusi quanto i due ragazzi che ci hanno accompagnato, e raccontato la loro situazione con lo sguardo basso e gli occhi lucidi.

https://www.hamiltonhouse.org


8. Una seconda possibilità

A questo punto, torniamo al The Park Centre (ricordate? Punto 4). Piove, come sempre in questi giorni. Come forse saprete, la pioggia non è una grande novità, nel Regno Unito.

Ci attende il founder e attuale Direttore di 2nd chance.

Ci racconta innazitutto la sua storia personale, legata a doppio filo con quella della sua Impresa Sociale: dopo un’adolescenza turbolenta, in seguito a un grave infortunio di rugby, si trova a dover abbondanare lo sport per cercare lavoro, ritrovandosi a 20 anni a fare la Guardia carceraria. In prigione, si guarda intorno e vede tante, troppe facce conosciute… che lo chiamano per nome e si sorprendono non che lui sia lì, ma che sia lì a fare il secondino.

Capisce di essere molto, molto fortunato a non essere finito dall’altra parte delle sbarre, e gli viene un’idea: usare lo sport come veicolo per indirizzare quelle giovani vite, gettate in una cella per un peccato di gioventù e già dimenticate dalla Società, in una direzione diversa.

Ci racconta di come la sua Impresa sia nata, e cresciuta nel tempo: fu un grant offerto da una Fondazione privata, molto sostanzioso (5 anni) a permettergli di avviare il primo progetto, direttamente nel carcere, da cui si licenziò, e su quel grant, in 9 anni, riuscì a costruire un’Impresa in continua espansione, e, soprattutto, sostenibile. Come?

Cambiare è difficile“, dice, “non cambiare è fatale“. La Mission, la Vision, le attività, ma soprattutto gli Amministratori di 2Chance sono cambiati vorticosamente nel corso degli anni. Non il target group: quello rimane. Tuttavia, per sopravvivere come un’Azienda Sociale, è stato necessario guardare e sperimentare differenti modelli e approcci.

Oggi, 2Chance si propone alle Amministrazioni Pubblici come una vera, efficace “alternativa” alla detenzione punitiva (cosa che spaventa non poco il sistema carcerario inglese, fortemente privatizzato). Come ricordavamo già al punto 1, con Bristol Together, un detenuto “istituzionalizzato” oltre a presentare un elevatissimo tasso di recidività, ha un costo altissimo per la Comunità, di cui è a tutti gli effetti un prigioniero e non un membro. Gli unici a guadagnarci, sono i Gestori delle Carceri Private.

Tramite lo sport, specialmente in età giovane, è possibile recuperare ad una vita attiva molti di quei giovani cui, spesso, non era mai stato offerto altro che miseria e repressione. 2Chance funziona: i loro ragazzi, in carcere non ci tornano quasi mai. Rientrano nella Comunità.

E loro sono bravi, bravissimi a dirlo a tutti i loro stakeholder: la comunicazione dell’Impatto Sociale è, davvero, qualcosa in cui abbiamo molto da imparare da loro.

https://www.2ndchancegroup.org/


9. Nella nuova fattoria

Lasciamo The Park e andiamo a visitare un’altra fattoria molto particolare. Ci accoglie un grosso cane, un po’ nervoso e un po’ curioso nel vedere tutti questi sconosciuti nel suo territorio, e la Direttrice di Elm Tree Farm, una donna destinata a colpirci basso con passione, dedizione e professionalità incredibili, abbinate ad una flemma, forse una pace interiore, che lei non esibisce, non sfoggia, e soprattutto riesce a non far stonare con il caos della fattoria e col viavai dei suoi particolari lavoratori: uomini e donne affetti da gravi disabilità mentali.

Questo è un tipo molto particolare di Impresa Sociale: non distribuisce profitti, per dirne una.

Lei ci spiega perché: “richieste di commesse, dall’esterno, ne arrivano. Potremmo produrre più articoli nel nostro Laboratorio del legno, allevare più animali o coltivare più verdura nei campi, per venderli a chi ce li chiede. Significherebbe però chiedere ai nostri lavoratori qualcosa che non vogliamo: rinunciare alla soddisfazione personale di aver creato qualcosa, coi propri tempi e con le proprie possibilità, per produrre, produrre, produrre di più”.

Ricordati per chi lo fai. Questo è il messaggio.

Le persone che lavorano a Elm Tree Farm non sono lì per creare manufatti da vendere nel Gift Shop, o piantare verdure da vendere al Mercato.

Semmai, il contrario.

Il Laboratorio del legno serve a chi ci lavora, per offrirgli delle skill da acquisire, un senso di soddisfazione e autostima nel vedere un’opera compiuta. I campi sono lì per offrire a chi semina e raccoglie la routine confortevole delle stagioni. I cavalli, i maiali, i cani della fattoria sono lì per aiutare chi se ne prende cura ad entrare in contatto con le proprie emozioni… per fargli da “Pet Therapist”.

Elm Tree Farm è parte del Brandon Trust, una Fondazione di beneficienza che ha lo scopo di aiutare persone affette da autismo e da altri disturbi mentali. Da esso, da ormai 12 anni, riceve parte cospicua del suo budget (l’80%), ad esso distribuisce i profitti alla fine dell’anno. Profitti derivanti principalmente, come dicevamo, dalla vendita degli articoli nel Gift Shop, dei prodotti della terra al Mercato, e delle uova, particolarmente fresche, alla gente della Comunità. Una vendita che è pero mezzo, e non fine.

Senza l’aiuto della sua Fondazione madre, Elm Tree Farm probabilmente non potrebbe esistere. Non sarebbe sostenibile. Quantomeno, non così com’è.

La Direttrice, una donna capitata lì per caso, anni fa, per fare semplicemente il suo lavoro di giardiniere, e che non è più riuscita ad andarsene, arrivando a prendersi sulle spalle la direzione dell’intera fattoria, lo sa bene: Elm Tree Farm non è sostenibile.

Lo sa bene, perché è stata sua la scelta.

Bisogna innanzitutto essere realisti. E poi ricordarsi per chi facciamo quel che facciamo.

Queste persone non possono sostenere i ritmi della produzione di massa, orientata al mercato.

Hanno bisogno di strappare le erbacce dall’orto per dieci minuti, e poi fissare il cielo per un’ora.

Hanno bisogno di tempo, non solo per imparare a usare un trapano o lavorare il legno, ma per assorbire le regole base di ogni posto di lavoro: ascolta attentamente le istruzioni, avvisa se non ti senti in grado di fare qualcosa, fai delle domande se non capisci”.

Questi discorsi ci toccano parecchio. Questa donna, dall’apparenza così pragmatica, così razionale, il suo target group l’ha messo nel cuore e non solo nel business plan. Lo vediamo, lo percepiamo, da come dirige i volontari nel lavoro quotidiano, da come la guardano i 50 lavoratori della fattoria (come un leader? come un capo? come una mamma? non si capisce bene, forse un po’ di tutto…), che in ogni istante del suo lavoro, ricorda per chi lo fa.

http://www.elmtreefarm.org/


10. La comunità, la creatività, l’arte

Attraversiamo il lungo ponte che congiunge Inghilterra e Galles, sorvolando il Canale di Bristol per giungere a Taurus Crafts.

Questa piccola Comunità, sita nel mezzo della Forest of Dea, ha deciso di fondarsi sulla creatività e sull’arte. Da 18 anni offre spazio a 14 Laboratori d’artigianato, gestisce un Gift Shop, una Cafeteria e uno spazio per le esposizioni.

Non solo: anche qui si offre lavoro a persone con disabilità mentali, e due di loro riusciamo a conoscerle da vicino: uno di loro è il Cuoco della Caffeteria dove pranziamo, che viene a salutarci e a chiederci se ci è piaciuto tutto. L’altro ha tempo e voglia di accompagnarci personalmente nella nostra visita, e di illustrarci palmo a palmo la Comunità di cui è tanto orgoglioso.

Si trovano entrambi a loro agio, si vede. Taurus Craft ha offerto loro un posto sicuro, dove costruire delle skill, e un’autostimache li aiuta ad “affrontare” ogni giorno gli occhi indiscreti di centinaia di visitatori.

L’integrazione tra artigiani e lavoratori con disabilità è totale: si tratta di una grande famiglia.

Il loro business model si basa sulle entrate della Cafeteria, sugli affitti dei Laboratori artigianali e dei piccoli negozi, e sui tanti, tantissimi eventi ed esposizioni artistiche organizzati per richiamare pubblico. Ci sembra, tutto sommato, piuttosto sostenibile: al momento, riescono ad occupare full time 8 risorse umane, più un’altra trentina part-time, con un turnover annuale di circa 300.000£.

Nota di colore: Taurus Craft paga l’affitto ad un Landlord, un Signore, che possiede la terra su cui è costruito. Il Lord è lui stesso un artista, dunque per il momento (al contrario di Coexist) sembra che questa Comunità sia al sicuro. Domani… chissà.

http://www.cvt.org.uk/communities/taurus-crafts



E ora, gentile amic* che ti sei letto tutta questa pezza… ecco il tuo premio:

Questo murales, che abbiamo avuto il piacere di vedere alla Hamilton House, è di Bansky. Si trova accanto alla Community Kitchen, si affaccia sulle sue finestre, la illumina, la ispira.

Di queste opere, Bristol è (era) piena… ultimamente si sta assistendo anche qui alla “rimozione” chirurgica della street art, e in special modo delle opere di Bansky. Lo scopo è chiarissimo: monetizzare. Vendendo, o chiudendo tra le quattro mura di un museo, un’opera d’ingegno pensata e realizzata per essere pubblica. Per stare sulla strada, appunto.

E anche questo, signore e signori, è Inghilterra.

Al di là della Manica e quel che Eutopia vi trovò Leggi tutto »

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